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La prospettiva tracciata da Viveiros de Castro, i cui contributi sono da anni al centro del rinnovamento concettuale dell'antropologia, si fonda su un'opzione antinarcisistica, capace di infrangere la sovranità del soggetto analizzante (antropologo) e il suo presunto primato sull'oggetto analizzato (le società amerindiane). Non è un caso, infatti, che Metafisiche cannibali sia concepito come la presentazione di un altro suo libro, ancora non scritto, intitolato L'anti-Narciso, tutto giocato proprio su questa rottura della relazione dicotomica tra soggetto e oggetto, laddove l'altro, tradizionalmente considerato oggetto dell'indagine, diviene invece fonte preziosa di concettualizzazioni, di epistemologie, di punti di vista indispensabili alla sua (e alla nostra) comprensione. Di qui la domanda-chiave, che orienta tutta la ricerca: qual è il debito concettuale dell'antropologia nei confronti dei popoli che studia? Rispondere a questa domanda, pensare l'antropologia come esercizio di infinita traduzione e di "equivocità controllata", significa partire da un assunto fondamentale: le concezioni e le pratiche che caratterizzano la ricerca antropologica provengono sia dai mondi del "soggetto" sia dai mondi dell'"oggetto", affermandosi tra i due una "alleanza sempre equivoca ma spesso feconda", capace di spiazzare ogni approccio di tipo dualistico. Questo radicale spostamento di prospettiva - sostenuto da una feconda ibridazione che collega l'antropologia strutturale di Lévi-Strauss alla filosofia "rizomatica" di Deleuze e Guattari - definisce la nuova missione dell'antropologia: quella di essere "una teoria-pratica di una decolonizzazione permanente del pensiero", che restituisce al sapere dell'Altro il posto a lungo negatogli nell'orizzonte della conoscenza. E a partire da questa impostazione che nasce una originalissima rilettura dello strutturalismo, della "se-miofagia" e delle popolazioni amerindiane, o dello sciamanesimo come attraversamento delle barriere ontologiche.