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«Nel pensiero dei moderni, il grottesco - scrive Victor Hugo nella Prefazione al suo Cromwell - ha una parte immensa. E dovunque: da un lato crea il deforme e l'orribile; dall'altro il comico e il buffonesco». Partendo dalla lettura di questo testo, il libro studia le metamorfosi della rappresentazione grottesca nella letteratura europea, e non solo, alla luce del trauma irreversibile provocato dalla Rivoluzione francese. Con la presa della Bastiglia si assiste a uno scatenamento irrefrenabile di forze distruttive che attaccano e uccidono ogni presunto colpevole, reale o fantasmatico che sia, il più delle volte prodotto da un'immaginazione sovraeccitata, come se i confini tra il possibile e l'impossibile fossero andati irrimediabilmente in frantumi. Dall'evento cruciale della decapitazione del re sotto la ghigliottina iniziano a diffondersi i germi dell'orrore che contagia, divora, deforma ogni cosa. Ed entra in scena il legame decisivo tra il sangue versato e la malattia, tra la violenza e l'aberrazione. L'attesa della morte, tanto reale quanto immaginaria, trascina la coscienza in un vortice di allucinazioni, sussulti visionari, deliri e incubi che dilatano la stabilità di ciascuna fisionomia psichica, estendendola verso direzioni sempre difformi rispetto alle norme codificate: grottesche, appunto. Proprio qui, in questo sottosuolo affollato di fantasmi e di lugubri oroscopi - perlustrato, intanto, dalla psichiatria di Esquirol e dei suoi successori - vengono a incrociarsi le traiettorie di alcuni tra i grandi protagonisti della narrativa ottocentesca: da Hoffmann a Poe, Nodier, Hugo, Balzac e Manzoni. Tutte traiettorie labirintiche, quanto le spirali tracciate da Piranesi nelle "Carceri": figurazione esemplare di questo tracollo delle forme, destinate ormai a convivere con la propria ombra negativa, dove il tragico si intreccia con il mostruoso.