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"Dei delitti e delle pene" è un intenso quanto rivoluzionario testo per gli obiettivi che Beccaria si pone in un'epoca, il '700, ancorata a un sistema giuridico volto alla sottomissione e che dunque bisognava riformare: analizza e denuncia l'insensatezza della tortura come pratica per ottenere la confessione di un presunto colpevole, poiché lo sfinimento fisico non può essere assunto come ambasciatore di verità; smaschera l'assurda incoerenza della pena di morte, in quanto lo Stato che la esegue non può definirsi giusto ed esemplare se, per punire un delitto, ricorre a un crimine; pretende l'uguaglianza di giudizio e punizione a discapito delle differenze sociali, giacché in una nazione vivibile e onesta la pena deve essere commisurata, proporzionata, al delitto commesso e non al prestigio sociale del colpevole; sostiene che l'esemplarità di una pena giace nella sua certezza e persistenza e non nella sua crudeltà. Beccaria conduce attente indagini e profonde riflessioni anche su altre sfumature del sistema penale del suo tempo, in un testo che si configura come un grido alla dignità umana e come la volontà di illuminare quelle leggi che, invece, portavano l'oscurità presso i popoli.