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Che cosa ha intravisto James Joyce di perverso e minaccioso nel sistema letterario? Qualcosa vi avrà ben scorto di pericoloso, se lo indusse a sottoporre le sue opere alla spettacolare torsione che le avrebbe sottratte alla letteratura, e ai suoi riti. È innegabile che le date dei suoi capolavori, il 1914 dell'inizio della stesura dello Ulysses e il 1939 della pubblicazione del Finnegans Wake, inquadrino con sconcertante tempismo gli anni più roventi del trauma novecentesco. Eppure colpisce la circostanza che, a fronte della grande attenzione critica che continua a destare (ma non in Italia) l'opera di Joyce, si sia poco studiata la sua incidenza sullo sviluppo di due dei più significativi e influenti nuclei di pensiero del secondo Novecento. Le penetranti riflessioni sui media di Marshall McLuhan e l'imponente rifondazione della psicanalisi di Jacques Lacan - dagli anni Cinquanta al 1981 per entrambi - affondano le loro radici nel magistero joyciano e nella questione sull'immaginario. Questo saggio, inseguendo la parabola con cui la joyicity fuoriesce dal sistema letterario, e indagando sulle conseguenze dell'opera di Joyce sulle ricerche di McLuhan e Lacan, viene dunque a colmare una vistosa lacuna tipologico-culturale, e a rilanciare con forza in Italia, nel momento in cui si assiste a una fioritura di nuove traduzioni dello Ulysses, l'opera del più grande artefice del Novecento.