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È durata otto anni - dal 1937 al 1945 - la guerra scatenata dal Giappone in Asia orientale e nel Pacifico, ma ancora oggi è il conflitto del XX secolo meno conosciuto in Occidente, dove è riduttivamente considerato solo a partire dall'attacco aereo di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. In quel lungo arco di tempo, l'esercito imperiale giapponese ha perpetrato crimini di inaudita ferocia, che richiedono un'analisi severa e approfondita, analoga a quella in corso da molti anni sulle atrocità compiute dal comunismo e dal nazismo in Europa. L'elenco è lungo e terribile: eccidi di prigionieri di guerra, campi della fame, cantieri della morte, prostituzione forzata, violenze sessuali, esseri umani usati come cavie, intere comunità intossicate da prodotti chimici. A Nanchino in poche settimane furono sterminate decine di migliaia di civili. E oltre 400 milioni di persone vissero sotto il terrore. Come è stato possibile arrivare a tanto? Perché questi fatti sono stati a lungo taciuti? E perché ancora oggi, in Giappone, molti (compresi alcuni storici), pur non negando i fatti, li giustificano, ne sminuiscono la portata o ne attribuiscono la responsabilità agli Alleati? Il Giappone ha beneficiato di numerose circostanze che hanno contribuito a mascherare le sue colpe e a trasformarlo in vittima, prime fra tutte le bombe atomiche lanciate sul suo territorio. Ma invocare il contesto storico, o quello che è accaduto dopo, o magari la tradizione militare nipponica, non è più sufficiente.