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La letteratura italiana - e soprattutto toscana - è ricca di storie di caccia, di cani e di selvaggina, magari di bracconieri. Eppure c'è, in questa raccolta di novelle di argomento in prevalenza venatorio, una cifra che conferisce loro una non comune originalità e modernità, sia pure nell'alveo di una nobile e antica tradizione. È la capacità dell'autore di immedesimarsi con straordinaria finezza nella natura animale colta nelle sue più diverse manifestazioni: nella preda come nel predatore, nella selvaggina come nel cane, nel cacciato come nel cacciatore. Capaccini partecipa con mirabile simpatia alla vita e alla morte dei protagonisti dei suoi racconti, fa della caccia, ancor prima che un passatempo o un mestiere, una sorta di sacra rappresentazione in cui si celebra il terribile mistero della lotta per l'esistenza. Da queste pagine, in cui il parlare toscano riemerge in tutta la sua talora vernacolare ricchezza, è difficile non uscire con gli occhi umidi di commozione dinanzi alla crudeltà della vita e attoniti di stupore per l'infinita bellezza del creato e delle creature.