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Uscito nei 1944 dalla penna di un autore quasi esordiente (sino a quel momento Charles Jackson aveva pubblicato due-soli racconti), "Giorni perduti" ebbe grande successo di pubblico e di critica. Un'opera prima salutata come un classico, tradotta in quattordici lingue, venduta in mezzo milione di copie solo negli Stati Uniti. I diritti cinematografici vennero acquisiti dalla Paramount che ne trasse un film di altrettanto successo, diretto da Billy Wilder e interpretato da un eccellente Ray Milland, che conquistò quattro Oscar (film, regia, attore protagonista e sceneggiatura non originale) e la Palma d'oro a Cannes. La vicenda è nota: Don Birnam - un intellettuale appassionato di musica classica e di Shakespeare -, scrittore in bolletta, crisi d'identità e ispirazione e roso dall'alcolismo, trascorre cinque giorni solo, in una New York spettrale, aggredito dai fantasmi del passato, dalle sue incapacità affettive (verso le donne e il fratello), vittima della mancanza di denaro e preda della sudditanza per il whisky. In questa sorta di precipizio verso il nulla, scende i gradini dell'abiezione: l'inganno, il furto, il ricovero nel reparto alcolizzati di un ospedale, il delirium tremens, e di nuovo l'inganno che all'ultimo trionfa sulla scena e a cui viene demandato il commiato al lettore, come a voler dire che da quella spirale appena conclusa non potrà che scaturirne un'altra, di cui s'ignorano i termini ma che sarà certamente più devastante.