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Il 30 luglio 1912 si spense in Giappone l'imperatore Meiji. Nei giorni successivi, durante i solenni funerali di Stato, il generale Nogi, in un atto di junshi, di accompagnamento del proprio signore nella morte, si uccise insieme con la propria moglie. I due eventi luttuosi scossero profondamente il Giappone del tempo. Scompariva, infatti, con l'imperatore, non soltanto l'epoca cui il sovrano aveva dato il nome, ma l'intero mondo racchiuso esemplarmente nel gesto del generale: l'universo della tradizione e degli antichi costumi nipponici. Due anni dopo, Natsume So¯seki pubblicò Kokoro (Il cuore delle cose), l'opera che è oggi unanimemente riconosciuta come il suo capolavoro, il romanzo in cui si affaccia per la prima volta, nella moderna letteratura giapponese, il malinconico sentimento della fine, del tramonto del cuore stesso delle cose. Protagonista dell'opera è il «maestro», un uomo che nella solitudine e nel distacco dal mondo cerca la via per accedere a sé stesso. Il prezzo, tuttavia, da pagare per essere nati in un tempo saturo di «libertà, di indipendenza e del nostro egoismo», è davvero alto. Come a segnalare la perdita totale dell'identità, nessuno dei personaggi ha, in questo romanzo, un nome. Né il giovane studente che, nella prima parte, descrive il proprio incontro con il maestro, né quest'ultimo o sua moglie e neppure l'amico morto indicato semplicemente come K. Tutti i legami, inoltre, anche quelli più sacri, sono infranti. Il cuore delle cose, tuttavia, non è soltanto la struggente narrazione della fine di un'epoca, poiché indica anche una via di salvezza nel tempo in cui gli antichi dèi sono fuggiti: la prospettiva di un'esistenza dove le passioni umane sono filtrate da un superiore distacco che ne attenua le asperità e le rende più universali.