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C'è stato un tempo non lontano in cui le città della Romagna, e più di tutte Faenza, rappresentavano la più grande preoccupazione per le Autorità nazionali per la diffusa delinquenza e per l'efferatezza dei delitti che vi venivano compiuti. Ne discutevano in Parlamento e i Governi ammassavano poliziotti e carabinieri, a volte anche l'esercito. Era la seconda metà dell'800, nei decenni di transizione fra Stato Pontificio e Unità d'Italia, c'erano il brigantaggio, gli accoltellatori, le rese dei conti con la saracca e l'archibugio: era facile che si riproponesse nell'opinione pubblica nazionale lo stereotipo antico dei romagnoli violenti, faziosi, settari, perfidi e traditori; ma sul finire del secolo Olindo Guerrini, in un celebre sonetto, si ribellava all'idea che queste terre fossero considerate "la cava degli assassini". Era un giudizio esagerato, segnato anche dal bisogno delle classi dirigenti della Destra Storica di associare le lotte di mazziniani, garibaldini, anarchici e socialisti, tutti molto radicati in Romagna, alle azioni dei criminali comuni. Tuttavia è innegabile che una lunga scia di sangue attraversi la storia di questa come di altre città di Romagna: dall'eliminazione di Avidio Nigrino nel 118 d.C. per mano dei sicari di Adriano, all'assassinio di Galeotto Manfredi da parte della giovane moglie, dalla strage delle "frutta del mal orto" a "La Castellina", all'uccisione del conte Filippo Ferniani, dall'uomo squartato davanti al cimitero di Granarolo, al "Brenta", vero e proprio "serial killer" novecentesco. Passioni, gelosie, vendette, cupidigia, ambizione e a volte follia: questi sono gli eterni ingredienti del delitto. Di questo e di altro racconta questo libro. Sembrano racconti gialli e noir, ma sono storie vere.