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A distanza di settantacinque anni dall'ultimo conflitto mondiale perché rievocare quei giorni bui quando il fascismo e la sua avventura di guerra produssero rovine, distruzioni, fratture esistenziali? I motivi sono almeno due. In primo luogo, per segnalare che la pratica del ricordare in tempi come gli attuali - nei quali l'adessità (come si dice con uno sgraziato neologismo) espunge dal proprio orizzonte tutto ciò che attiene al passato - è un modo per accostare il ruolo generativo del tempo, ovvero quell'aspetto della temporalità che consente di riconoscersi in comuni e condivise mappe valoriali e risvegliare sentimenti di pietas per persone, ambienti, accadimenti che, sebbene scomparsi, rappresentano comunque uno spazio da proteggere se non si vuole smarrire la percezione di essere parte di un tutto. Aver cura del linguaggio costruttivo del tempo (e della sua versione positiva, "in apertura", che aggiunge e ordina, allaccia il prima al dopo, l'antecedente al successivo) significa, tra l'altro, sia tutelare la stessa società che rischia di collassare come progetto e come idea se si paralizza nel presente e nell'identico.