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La poesia è figlia della notte, ricordava Jabès. Dovrà usare la voce per uscire dall'oscurità. Si farà trasparente la parola poetica, e non invisibile; raccoglierà i brandelli di ciò che in altro modo non può essere detto. C'è una necessità nel dire poetico che sovverte l'alba e si fa saldo coro degli opposti. Per poter vedere quell'indistinto che preme alla soglia del giorno si dovrà muovere con cautela verso un lume, oppure lasciarsi vincere dalla caduta in un altrove. C'è un doppio monito nelle parole di Jabès: da una parte si deve stare in guardia da chi canta immobilizzato dalla sorpresa e dall'altra ci si deve far piegare dalla notte come da una confidente a cui tendere le mani. La notte conosce l'intramata tessitura della memoria, del sofferto e cogente desiderio che dalla terra passa al verso. La nuova silloge di Enrico De Lea si fa largo nell'indistinto e caotico fragore dell'oscurità per dire, una volta per tutte, che non si arriva al mondo da soli. Neri e gaudiosi lumi in valle è la sezione di apertura dell'intero volume e la dichiarazione di un impossibile spaesamento. De Lea sa bene infatti che non ci si espone se non in quel noi che presagisce il passo a venire.