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Alfonso Guida ingaggia un continuo corpo a corpo con gli alberi, le pietre, le averle, il cielo e le parole cadono come oggetti naturali su questo mondo stratificato: una esatta civiltà italiana dei paesini limitrofi a Matera, piena di incontri bruschi, spicci, ardenti e insieme il tempo vuoto e sospeso dei mistici e ancora, avanti, la lingueggiante desolazione dei reparti psichiatrici, il tremendo dolore umano che si poteva evitare. Quello di Guida è uno stare dentro le macerie del linguaggio e dell'anima, un osservare la catastrofe fino a che si compia un nuovo ordine, fino a che i successivi svelamenti e accensioni si compongano nel consueto "stile". Il solo ponte sopra le rovine, l'arco altissimo che porta Alfonso Guida da una riva all'altra del fiume di sangue è questa liturgia della lingua anch'essa nuda e indifesa nel chiedere lo sforzo a noi lettori di prenderla per mano e andarle dietro, nel suo mondo bombardato e sotterraneo e primordiale e illogico, come seguissimo una nuova specie di "Alice", una variazione bellica della "Alice" di Carroll. Ecco che il tempo che ci voleva è stato e le macerie si sono organizzate nello stile di un rinato.