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Sembra passato un secolo da quando Art Blakey se n'è andato, stroncato da un male incurabile, il 16 ottobre del 1990, all'età di settantuno anni. Perché la sua figura era certo ingombrante, come il suono profondo e poderoso dei suoi tamburi, come l'affetto che nutriva per i suoi giovani musicisti. E, oggi, tutto sembra un po' più vuoto senza la sua proverbiale serenità, senza quei 'press rolls' che incendiavano l'aria. Come ha scritto Wynton Marsalis: «Si deve anche a Blakey se il jazz è diffuso in tutto il mondo. Con la sua batteria Art era in grado di evocare lo spirito arcaico del tuono così come lo stupore che c'è nel pianto di un neonato. Blakey ha dimostrato che la batteria è il battito cardiaco, il motore e la forza vitale del jazz». Eppure, nonostante una carriera durata cinquant'anni, nel corso della quale ha registrato un migliaio di dischi (di questi, più di seicento a suo nome), Art Blakey resta un personaggio relativamente sconosciuto: scarse le informazioni certe sulla sua vita, confuse quelle relative alle innumerevoli incarnazioni dei Jazz Messengers. Questo non è soltanto il primo libro su un batterista mai pubblicato in Italia. È anche il primo libro che parla di un accompagnatore, un musicista cioè che a differenza del solista non gode del proscenio, o delle luci della ribalta, ma che svolge il suo insostituibile lavoro nell'ombra tessendo una solida e stimolante rete di protezione sulla quale i solisti possono librarsi senza paura di rovinose cadute. Perché Blakey, uno dei più importanti bandleader dell'intera storia del jazz, seppe essere un formidabile gregario, un eccezionale direttore d'orchestra seduto dietro i suoi tamburi, un inimitabile uomo di musica. Torna dunque in libreria un saggio che ha fatto scuola, con nuovi materiali e una nuova introduzione.