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"Partivano. La gente di queste parti è sempre partita". I ricordi di Toni e Margherita, un anziano pastore e sua moglie, disegnano a tratti scarni ma decisi la loro storia, la storia della gente di Roaschia, nel Piemonte rurale di oltre mezzo secolo fa. Pastori, acciugai, venditori di capelli, uomini perennemente in viaggio: l'etnografo si chiede se abbia senso parlare di "radici", quando esistono "terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre", quando si è costretti a fuggire dal proprio villaggio per scampare alla povertà, per sopravvivere, "rubando l'erba" per le proprie pecore. Eppure continuiamo a pensare che il nomade, il randagio, il bastardo, siano l'eccezione, e che il sedentario sia la norma. Marco Aime, che in quelle terre è nato e cresciuto, stempera il "dato" antropologico e oggettivo in un racconto vivido, "in prima persona", e proprio per questo vitale, nonostante la patina del ricordo e della nostalgia. La vita del pastore, segnata dall'universale diffidenza che i sedentari covano per i migranti di ogni tempo e luogo, diventa l'emblema - e la guida - di tutte le nostre peregrinazioni: "È quello il suo sapere, uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre".