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Le liriche di Attilio Cantore sono intrise di esuberanza erudita nelle scelte lessicali e nell'aggettivazione ma sanno esulare dalla dimensione 'scolastica' tipica delle prime prove poetiche. La poesia qui è prosa che va a capo, pur senza disdegnare assonanze, anafore, allitterazioni e rime che si creano quasi spontaneamente all'interno di un discorso che mira a comunicare un sentire profondo e sincero, a tratti ingenuo nel suo candore. Se infatti ci si imbatte in "usbergo", "lorica", "letedano", "leosfetero" non è mai per mero compiacimento dell'autore ma per l'osmosi che si verifica tra lui e la cultura classica assimilata con passione ogni mattina sui banchi del liceo. La contemplazione della Natura e l'osservazione disincantata o dolorosa dei cicli di Vita e Morte animano i versi di Cantore la cui giovane età gli impedisce ancora di cantare a dovere Eros, eterno ispiratore di liriche. Tutto a suo tempo. La Musica - esperita dall'autore nel duplice aspetto pratico e conoscitivo - costituisce il terzo (e più nascosto) elemento tematico che rappresenta la componente essenziale dell'animo di Cantore, proposta tuttavia nelle sue liriche con umiltà e senza invadenza (non è un caso che la terminologia dotta d'ambito musicale non sia quasi mai impiegata, come invece lo è quella di pertinenza letteraria o botanica).