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"Massa e potere" (1960) di Elias Canetti, nella sua straordinaria capacità di nascondere le sue quasi seicento pagine nelle pieghe della cultura europea, è un libro titanico perché è uno di quei libri che afferrano i secoli e li scuotono dalle fondamenta. Un libro che dà la caccia al potere in tutti gli anfratti e lo riduce alla fine alla più nuda nudità, alla flaccidità tremebonda e assassina del sopravvissuto, del "potente" che uccide infinitamente non per forza e crudeltà, ma per la più squallida e abietta paura. Un libro che guarda la morte stessa negli occhi dalla prima all'ultima pagina contendendole ogni centimetro di terreno, senza arretrare mai, senza fare nessuna concessione, senza mai avvertire nella lotta contro il nemico per eccellenza invincibile alcun senso di sconfitta. Un libro che scava fino alle radici di tutto ciò che tocca, che insegue, bracca, cattura l'essenziale in tutto ciò che è umano. E anche dove non si è convinti, anche dove si è quasi spinti a lottarvi contro, anche dove si resta insoddisfatti di fronte a magnifiche idee lasciate a metà (una per tutte: la metamorfosi), è uno di quei libri che danno una straordinaria, benefica sensazione di luce limpida.