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Nel decennio che precedette la seconda guerra mondiale, mentre Hitler prendeva il potere e Stalin inventava lo stalinismo, la Grande Riforma del teatro del Novecento arse come un roveto e un faro, vivendo una delle sue apoteosi e una delle sue fini. Questo trittico rappresenta e condensa quel periodo. Il luogo dell'azione è la terra russa. L'Europa e il cielo vengono visti da quella terra. L'Unione Sovietica apparve, in quegli anni, come il Paradiso Terrestre del teatro. Presto divenne la sua Siberia. Ma nel momento che di poco precede la fine - come accade in certe malattie e nei drammi di Cechov - la vita avvampa con particolare e percolante evidenza, prima di chiudersi nel gelo. Le tre ante del trittico di Lars Kleberg hanno un protagonista ricorrente, un artista in piena ebollizione creativa, ma già con gli occhi spalancati sul vuoto, un artista potente e spaesato. Sergej Ejzenstejn, nel maggio del 1932 è in treno verso Mosca. Nell'aprile del 1935 a Mosca partecipa a un dibattito sul grande attore classico cinese Mei Lanfang. Sempre a Mosca, in una sera di primavera del 1940, è nel Planetario dove immagina di mettere in scena La Valchiria di Richard Wagner [...]. Lars Kleberg è uno storico. Anche quando, come in quest'opera, sembra dedicarsi all'invenzione, in realtà non inventa nulla. Compone, condensa, sintetizza, intreccia. Dà peso e consistenza a un nodo del tempo di cui sopravvivono infinite notizie, ma di cui si sono persi l'odore e il timbro della voce.