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Parigi, Centre Pompidou, quinto piano, seconda sala a sinistra: si rimane malinconici a lungo, dopo aver fissato lo sguardo triste dell'Arlecchino seduto di Picasso. Sembra che guardi in basso, come per evitare il confronto diretto con lo spettatore, ma i suoi occhi si perdono nel vuoto. Le mani giunte sono colte dal pittore in un momento di tregua, si percepisce che Arlecchino le sta sfregando in un gesto ripetitivo: un movimento automatico, magari un tic. Forse un modo per combattere il freddo. Non c'è rabbia in questo quadro, solo rassegnazione. Cosa può dirci ancora Arlecchino di un secolo tragico? Un filo nero tratteggia il costume, le pieghe delle braccia, la cinta che gli stringe la vita. E un accenno di colori pastello lascia immaginare il costume e definisce il viso, lo sguardo. E nessuna maschera. La faccia di Arlecchino è nuda, come quella di un re senza più autorevolezza, un re deposto: vinto dalla luce elettrica, dalle guerre industriali, da una risata smisurata di fronte al dramma comune. Il quadro del Centre Pompidou è del 1923, ma dal 1901 al 1936 Pablo Picasso ha dipinto decine e decine di Arlecchini blu, rosa, cubisti, neoclassici. Dev'esserci una ragione: questo libro prova a raccontarla, utilizzando il teatro, l'arte, le convenzioni sociali dell'epoca e la storia del XX secolo, per arrivare ad affermare che Arlecchino è l'ultimo individuo prima dell'esplosione della massa nella quale si perderà il Novecento.