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In questo libro si fa luce su un aspetto poco studiato della questione della lingua del Cinquecento: il lungo e serrato dibattito tra quanti volevano allargare ambiti d'uso e pubblico del volgare e quanti sostenevano il latino come 'lingua viva' dei dotti, capace di crescere ancora nel lessico man mano che le scienze e la storia imponevano nuove parole, e con ciò capace non solo di perpetuare la concezione umanistica della lingua e della cultura, ma anche di difendere l'identità culturale dell'Occidente cattolico. La visione dei latinisti è indagata attraverso il dialogo "De linguae latinae usu et praestantia" di Uberto Foglietta (1574), il trattato più maturo e completo dell'intero corpus analizzato. A sostenere il volgare, oltre alle voci note di Bembo, Tolomei, Speroni e Varchi, vi sono quelle di Muzio e Citolini, cui si contrappongono quelle dei latinisti Amaseo, Calcagnini, Florido e Sigonio. La dialettica tra volgaristi e latinisti illumina sia le teorie linguistiche dell'epoca sia la politica culturale di vari stati italiani, in particolare dello Stato della Chiesa negli anni della Controriforma.