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È indispensabile dare fuoco al Louvre per affermarsi tra i maestri del proprio tempo? Per rispondere a questa domanda provocatoria, negli anni sessanta il critico d'arte Pierre Schneider invitò undici celebri artisti dell'epoca - fra cui Giacometti, Mirò, Chagall, Steinberg - ad accompagnarlo, uno per volta, attraverso le sontuose sale del museo parigino. Nessuno degli invitati si tirò indietro e la verità che ne emerse è valida tutt'oggi: ben lungi dal rappresentare una tortura, il Louvre esercita sull'artista un richiamo inesauribile nel tempo. Né scoraggiato né sollevato - semmai sedotto dall'abisso che lo separa dai giganti che vi dimorano, solo l'artista sa interrogarli e intrattenere con loro un dialogo fra pari. Schneider registra ogni commento, ogni gesto, perfino i silenzi e gli umori altalenanti dei suoi interlocutori, dei quali tratteggia in poche battute l'itinerario del pensiero. Poi, al momento giusto, la domanda insidiosa. Le cui risposte - a volte feroci, a volte ammirate, mai deferenti - rivelano un acume raro e una grande intimità con artisti anche molto distanti. Assistiamo, così, all'imprevedibile commozione di Chagall davanti a Courbet ("un grande poeta"), alla sua stizza di fronte a Ingres ("troppo leccato"), alla predilezione di Giacometti per l'autoritratto di Tintoretto ("la testa più magnifica del Louvre"), allo stupore onomatopeico di Mirò, che lancia fischi di ammirazione ai mosaici africani.