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Norman Lewis aveva il dono di intuire dove le cose importanti della storia stavano per accadere, e di farsi trovare li per testimoniarle. Nel 1949 questo luogo era l'Indocina, e in "Un dragone apparente", Lewis racconta una civiltà sull'orlo del baratro, stretta fra l'imminente crollo del colonialismo e le tensioni che porteranno alla devastante guerra del Vietnam. Con uno stile inimitabile, leggermente ironico ma per nulla distaccato, Lewis restituisce al lettore una Saigon in cui la Francia coloniale si intrecciava con l'antichissima cultura orientale, in un equilibrio precario quanto affascinante. Si addentra poi nella foresta pluviale per documentare le popolazioni indigene sopravvissute all'abbraccio ambiguo dell'Occidente: i moï, i meo, i rhadé, i thai neri e i loro sconosciuti villaggi, le longhouse di vita in comune. E ancora: Cholon, Vientiane, Luang Prabang, Phnom Penh e le rovine di Angkor Vat. Incontra imperatori e schiavi, brutali proprietari di piantagioni e sensibili ufficiali francesi, persino il papa del caodaismo, il culto che annovera fra i santi Victor Hugo. Su tutto incombe l'ombra lunga del Viet-Minh, invisibile e minaccioso come la tigre nella foresta, combattente per l'indipendenza mentre l'oeuvre civilisatrice della Francia prende a sfumare nella tragedia di un mondo al tramonto.