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Il racconto di una città attraverso diverse generazioni di artisti che si sono imposte a partire dagli anni Settanta Se New York è il mondo, Los Angeles è certamente l'America. O almeno quell'America che cattura la nostra immaginazione per non lasciarla più. Una megalopoli nel deserto, un universo a sé che parla molte lingue e vive altrettante contraddizioni: feudo repubblicano e patria dell'underground, Hollywood e beat generation, Charles Manson e Marilyn Manson, insieme di linguaggi, idiomi, popoli. Los Angeles (state of mind) è il racconto di una città attraverso diverse generazioni di artisti che si sono imposte a partire dagli anni Settanta per arrivare fino a oggi. All'inizio anche in California si sovrappongono stili e linguaggi senza una linea o un genere prevalente. Alle ultime esperienze di pittura astratta con Sam Francis ecco coesistere la Pop Art di Ed Ruscha. I Settanta però sono anche il decennio dell'arte concettuale, della Body Art e dell'happening, nelle figure di John Baldessari, di Paul McCarthy, performer spesso estremi, di Ed Kienholz e di Lynda Benglis, tra le esponenti di spicco del femminismo militante. Molto significativa la generazione di mezzo, artisti nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che Mike Kelley così definiva: "troppo giovane per essere un freak, troppo vecchio per essere un punk". Emersi negli anni Novanta, Doug Aitken che si esprime attraverso videoinstallazioni e fotografie, e la neominimalista Rita McBride. La Los Angeles di oggi guarda soprattutto alla Black Culture, fenomeno che si manifesta in tutta la sua urgenza sociale e costituisce l'asse portante di rinnovamento critico della cultura americana. I disegni di Umar Rashid e l'intensa pittura di Henry Taylor testimoniano questo passaggio epocale, per un'America sempre diversa.