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Il Tour de France è per tutto il mondo la corsa ciclistica più ambita, un evento sportivo secondo per popolarità solo alle Olimpiadi e ai Mondiali di calcio. Per gli italiani, però, è qualcosa di più. Da sempre, al di qua delle Alpi, il Tour è un po' il contrario del Giro d'Italia: mentre il Giro è una grande festa di paese in cui l'Italia intera si stringe ai crocicchi delle strade per incitare i "nostri", la Grande Boucle ha il sapore della spedizione in terra straniera, dove si parla un'altra lingua, dove i paesaggi, le montagne e il cibo sono diversi. Se a questo si aggiunge l'antica rivalità con i francesi - "che s'incazzano", certo, ma che sanno riconoscere il valore dei grandi ciclisti, anche italiani - è evidente perché anche un solo giorno in maglia gialla può valere una carriera. E così, come gli emigranti che andavano a cercare fortuna con la valigia di cartone, i nostri ciclisti sono sempre partiti alla volta del Tour come per un grande viaggio, dagli esiti talvolta gloriosi, talvolta amari, ma sempre colorati delle tinte dell'epica: polvere, visi rigati dal vento, storie di povertà riscattata e ostinazione, in cerca di un sogno sulle grandi salite alpine e sui Pirenei. Nel racconto di Giacomo Pellizzari spesso sono proprio Gli italiani al Tour de France a prendere parola e a narrarci le gesta di cui sono stati protagonisti: da Ottavio Bottecchia, primo italiano a vincere nel 1924, fino alla cavalcata trionfale di Vincenzo Nibali sul viscido pavé della foresta di Arenberg. Passando per le grandi imprese riuscite di Fausto Coppi, Gino Bartali, Gastone Nencini, Felice Gimondi, Marco Pantani e per quelle mancate (magari per un soffio) di Fiorenzo Magni, Claudio Chiappucci e Gianni Bugno, senza dimenticare Fabio Casartelli, che muore in seguito a una caduta nella discesa dal Portet d'Aspet. Campionissimi e giocatori d'azzardo, Pirati e Squali, tutti con la stessa, magnifica ossessione: passare in solitaria sotto la fiamma rossa dell'ultimo chilometro e conquistare Parigi in maglia gialla.