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Natali a Essen, in Germania, italiano dentro e fuori, già premiato con una stella Michelin, in questa conversazione con il giornalista Roberto Messina, lo chef Enzo Pettè si appassiona a raccontare le sue ricette di più facile esecuzione e quelle più complesse. Piatti comunque memorabili, di una cucina al tempo timbrica, tonale, di testa e di gola (come ebbe a teorizzare Gualtiero Marchesi) e che seguono la raccomandazione di Nicolas de Bonnefons, maestro di sala di Luigi XIV: ovvero, che «la zuppa di cavolo, deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa». Questa la sua regola fondamentale, da innovatore ancorato alla tradizione: «rispettare l'integrità della materia prima, conservarne le peculiarità. Ma briglia sciolta a fantasia e creatività, alla ricerca di nuove combinazioni. Bisogna svelare e custodire segreti, come un alchimista». Il "Pettè style" porta a tavola pietanze sorprendentemente nuove e sperimentali, ma nello stesso tempo antiche e familiari: «nella mia cucina c'è tanto Mediterraneo: più che luogo fisico, uno stato d'animo che ho dentro, legato alla Calabria, regione delle origini. Non so descrivere esattamente a parole. Preferisco farlo con la migliore composizione dei sapori». Tra i primi a calcare il proscenio televisivo, molto tempo prima dell'invasione enogastronomica dell'etere (suoi i primi pomeriggi di "cooking class" col maitre Andrea Tempestini, da Montecatini Terme) vi ha deliberatamente rinunciato: «la tivù mi stanca. Per sviluppare energia e creatività, occorre stare contenuti nel proprio "habitat naturale". Io cucino meglio in cucina, che in uno studio televisivo con tempi innaturali e occhi puntati addosso». Un riassuntivo consiglio di Pettè per gli aspiranti chef: «cucinare sempre con il cuore contento. Con l'anima in cucina. E per una cucina dell'anima. Non occorre una radiografia per riconoscere chi è bravo. Basta vedere come fa un semplice piatto di spaghetti».