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La predisposizione di una disciplina sulle scelte di fine-vita per pazienti affetti da patologie irreversibili - terminali o meno - che sia condivisa da tutti si connota per una particolare complessità. Ad imporre una riflessione profonda non partecipa solo il rango dei diritti che devono ricondursi ad armonia, ma anche la circostanza che il modus di concepire tali diritti coinvolge le più intime sfere della coscienza. Occorre, allora, evitare esasperazioni emotive e tendere ad una soluzione che appaia soddisfacente sotto il profilo dogmatico e politico-criminale. Dunque, la rigidità della disciplina sulla tutela penale della vita, prevista dal codice del 1930, negli articoli 579 e 580 c.p., deve ripensarsi alla luce delle mutate esigenze della realtà e dell'evoluzione della coscienza sociale, recepite, seppur parzialmente, dalla legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento, n. 219 del 2017. Non solo va considerata la trasformazione del retroterra culturale e giuridico, di cui è espressione la Costituzione del 1948, ma anche che le conquiste del progresso medico-scientifico consentono oggi un prolungamento della vita umana ben oltre i limiti che il legislatore del 1930 avrebbe potuto immaginare e che determinano, finanche, un mutamento delle concezioni di vita e di morte. Da un lato, è la medicina ad indurci - consentendo uno straordinario rallentamento dell'esito infausto delle patologie terminali - a concepire la morte come processo oltre che come evento; dall'altro, è la centralità della persona nell'ordinamento a negare cittadinanza ad un dovere di vivere ad ogni costo di sofferenza e a restituirci una rinnovata importanza della dimensione biografica della vita rispetto a quella biologica, riconoscendo il valore dell'atto di chi ne disponga per preservare l'integrità della propria coscienza nei confronti di sé stesso e nel ricordo che, di sé stesso, lascia. Così, nell'attuale panorama normativo il riconoscimento del diritto dell'ammalato ad autodeterminarsi nella morte rivendica il proprio spazio sia, sul piano dei diritti del singolo, come libera espressione della personalità individuale, sia, sul piano dei doveri collettivi di solidarietà, come rifiuto dell'abbandono sociale della sofferenza.