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Il titolo del libro fa il verso ad un romanzo di Alberto Moravia, L'uomo che guarda (1985). Il soprannome del protagonista, Dodo, esprime impotenza: questi, assediato dall'eros e dalle sue perversioni, è chiamato a guardare sempre, a essere spettatore non solo del mondo, ma spia della propria volontà di capire, di giustificare la realtà che lo opprime e lo fa sentire inadeguato. Il diritto moderno non sembra comportarsi in modo molto diverso, i suoi processi di osservazione della società sono contemporaneamente processi di auto-osservazione, in cui sempre più spesso accade che il diritto si senta inadeguato rispetto alle aspettative che sono rivolte nei suoi confronti e alle prestazioni che gli vengono richieste. In alcuni casi deve registrare melanconicamente la propria inefficacia e i propri ripetuti fallimenti, in altri casi trasforma la propria frustrazione in eccitazione quasi ossessiva, nella riproduzione di divieti e ostacoli che non tengono conto dei precedenti fallimenti, in altri ancora s'intriga curioso anche in questioni che sembrano del tutto estranee alle sue competenze, con un fare voyeuristico molto simile a quello di Dodo.