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Secondo molti studiosi la coscienza sarebbe legata alla quantità e alla complessità degli elementi del sistema nervoso. Sulla scorta di nuovi dati emersi dagli studi sulle capacità cognitive degli organismi dotati di cervelli miniaturizzati, come ad esempio le api o le mosche, Giorgio Vallortigara sviluppa in questo libro affascinante una prospettiva minimalista antitetica a quella convinzione. Distaccandosi dai modelli oggi più comuni nell'ambito delle neuroscienze e della filosofia della mente, egli avanza la tesi originale che le forme basilari dell'attività cognitiva non abbiano bisogno di grandi cervelli, e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali, tra cui gli esseri umani, sia al servizio dei magazzini di memoria e non dei processi del pensiero o della coscienza. Il substrato più plausibile per l'insorgere di quest'ultima va piuttosto ricercato in una caratteristica essenziale delle cellule, la capacità di sentire. Una capacità che si sarebbe manifestata per la prima volta quando, con l'acquisizione del movimento volontario, gli organismi elementari hanno avvertito la necessità di distinguere tra la stimolazione prodotta dalla propria attività e quella procurata dal mondo esterno, l'altro da sé. L'esistenza di un minimo comune denominatore tra noi e le forme di vita più umili ci allontana una volta di più dal concetto cartesiano dell'animale-macchina - e solleva interrogativi etici ai quali non potremo a lungo sottrarci.