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Fra i grandi cantori del Male, di ogni epoca e lingua, un piccolo posto spetterebbe di diritto a T. F. Powys. Nessuno scrittore del Novecento è infatti riuscito a mostrare con la stessa infernale precisione dove il Male si annidi, per quali vie insospettabili agisca e quale effetto possa avere sugli uomini, cosi spesso ignari di perpetrarlo. Come sempre Powys non ha bisogno di nominare il diavolo per farci avvertire la sua presenza: gli basta un dialogo smozzicato, un boccale di birra, l'odore del fieno. Ma forse mai come in questo breve romanzo degli anni Venti la sua arte di narratore ha sfiorato la perfezione - con le sue accelerazioni improvvise, con i suoi giganteschi understatement e il suo humour di pece; con la sua capacità di muovere implacabilmente, e senza mai cedere al pathos, una ragnatela di personaggi nello spazio so di un piccolo villaggio fuori dal tempo. E ancora oggi nella terribile concretezza di queste storie riconosciamo uno dei rari scrittori metafisici del Novecento.