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Per oltre cinquant'anni, a partire da "Chopin o del timbro", Mario Bortolotto è stato la guida indispensabile per chiunque volesse avventurarsi in quel territorio sconfinato e irto di pericoli che è la musica moderna (dal Lied romantico all'Ottocento russo e francese, all'Opera, passando per Wagner e Strauss, fino alla Nuova Musica). E lo è stato per una ragione ben precisa: la sua ineguagliata capacità - unita a una conoscenza della materia pressoché sterminata - di far parlare la musica. Qualcosa di paragonabile forse soltanto a quello che seppe fare Roberto Longhi con la pittura italiana. All'attività di storico e musicologo Bortolotto ha affiancato per tutta la vita quella di critico, beffardo e infallibile, che ha esercitato instancabilmente in giro per il mondo. Ma questa nuova scelta di suoi scritti mostra ancora una volta, come sempre in tutte le direzioni (da Beethoven a Strawinsky, da Schubert a Stockhausen), quale fosse la sua vera e più segreta vocazione: essere un viandante - fedele soltanto a quell'arte obliqua che amava attribuire a Brahms, ma di cui lui stesso fu maestro insuperato: «l'incomparabile dono del dire le cose a metà, del dirle e non dirle, in modo da alludere o indicare sempre orizzonti che all'inizio non erano in gioco, non erano annunciati».