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"Dopo aver creato il cane, Dio si fermò un istante a contemplarlo nelle sue incertezze e nei suoi slanci, annuì e seppe che era cosa buona, che non aveva tralasciato nulla, che non avrebbe potuto farlo meglio": scritta da Rilke a un'amica, è la frase che troviamo sulla soglia di questo romanzo - una nuova incursione di Rosa Matteucci nell'universo aggrovigliato e dolente dei rapporti familiari. Nella famiglia della narratrice sono proprio i cani ad assumere un ruolo determinante: quello di una "risicata passerella di corde gettata fra due impervie ripe sentimentali". Da un lato del baratro c'è una madre di "leggendaria bellezza", refrattaria a qualunque "smanceria", sorda a ogni "desolato richiamo d'amore", e del tutto disinteressata a fornire alla prole più che un incorporeo nutrimento spirituale; dall'altro, una figlia convinta da sempre della propria inadeguatezza, che non nasconde "una malsana predilezione per quello sfaticato" di suo padre, e votata all'accudimento di una lunga serie di cani, tanto deliziosi quanto pestiferi (e nutriti, loro sì, parecchie volte al giorno). Finché non si troverà, la figlia, a dover accompagnare la madre, amata sempre di un amore tacito e geloso, nel drammatico percorso della malattia che la porterà alla morte. Ancora una volta, con il consueto, lucido puntiglio e con quella lingua ardita e immaginosa che è soltanto sua, Rosa Matteucci mette in piedi un teatrino degli affetti al tempo stesso struggente e grottesco...