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Negli anni Novanta si aveva un sogno, quello di una finanza capace di sostituirsi all'economia reale e di garantire benessere e crescita illimitata. Ma il sogno è crollato. Il nostro mondo ha perso credibilità, si è ridotto a un involucro artificiale: si fa mostra di corpi dopati dalla chimica e dal fitness o rimodellati iperbolicamente dalla chirurgia estetica, mentre soccombe la vita privata esposta in vetrina e messa all'asta. Le ragioni dell'individuo scompaiono nell'individualismo di massa, spopola la coercizione del narcisismo da facebook e da twitter o dei pomeriggi da flàneur forzati all'Ikea e da Abercrombie. Il mito occidentale sembra migrare a Dubai, dove i ricchi occidentali fanno i profughi volontari in Oriente, ma è un espatrio fallimentare e incapace di autentico esilio. Chi rimane invece si specchia, con sguardo consapevole e sbigottito, nell'allucinante iperrealtà dell'architettura di oggi: il delirio verticale dei grattacieli si converte nella regressione infantile dell'Ovest del mondo. Forse è dalle rovine, in quanto simboli della memoria, che dobbiamo ripartire. Igino Domanin, con la violenza verbale di chi non si rassegna, invita i vivi a ricostruire la loro genealogia, a riconnettersi con il proprio passato, per fare piazza pulita, si spera, di tutta questa infinita deriva concettuale, morale, politica.