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Raccontava Christopher Isherwood - alla cui esperienza si ispirò il film "Cabaret" - che a fine anni Venti, alla vigilia della grande crisi economica antesignana di quella attuale, si precipitò a Berlino perché la città era considerata "il luogo più vizioso dai tempi di Sodoma". Sessantanni dopo e con le stesse motivazioni, il narratore di questo libro, allora giovane, segue le orme dello scrittore inglese e una sera giunge in quella che è una capitale divisa in due, vivendovi un'avventura tanto pericolosa quanto memorabile. Dall'episodio, che potrebbe figurare in una spy story di Le Carré, se non fosse che i protagonisti sono due ragazzi imbevuti di poesia, e cioè piuttosto goffi, ha inizio "Le voci di Berlino", narrazione corale e imprevedibile di "una città che non è, ma continuamente diventa", un luogo dove la letteratura, a furia di inseguire la realtà, la raggiunge. La storia di una metropoli è un romanzo sotto mentite spoglie. Se poi la metropoli è stata il cuore di una monarchia imbelle, di una repubblica litigiosa, di due dittature, e infine è diventata il centro politico dell'Europa odierna, il romanzo rischia di trasformarsi in una categoria dello spirito. È appunto in questa chiave che il libro spazia dalla Berlino sfrontata di Isherwood e Auden, ricostruita con materiali inediti, a quella degli iniziali bagliori dell'incendio nazista; dalla città distrutta dopo la caduta del Terzo Reich in cui i due figli di Thomas Mann, Erika e Klaus, tentano di riannodare il filo della memoria.