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Il "Liber sex principiorum" è un'opera breve di scuola abelardiana, attribuita inizialmente a Gilberto Porretano e oggi generalmente considerata spuria dalla critica moderna; lo scritto risale con ogni probabilità alla prima metà del XII secolo e, nonostante lo stile oscuro e la complessità dei temi trattati, ha goduto di una certa fortuna nel Medioevo, giacché colmava una lacuna nelle 'auctoritates' per lo studio della logica; divenne infatti parte integrante dei curricula di logica, alla pari dell'"Isagoge" di Porfirio e degli scritti di Boezio, tanto da essere commentato da Alberto Magno e discusso da Dante Alighieri. Ancora nel XVII secolo, il commentario conimbricense alla logica aristotelica lo considera testo importante e persino Leibniz ne riprende alcune dottrine nella sua "Monadologia". I sei princìpi di cui tratta il libello sono le sei categorie aristoteliche "minori" che determinano la forma, che Aristotele aveva lasciato pressoché non analizzate nelle sue Categorie: azione, patire, quando, dove, posizione e avere (le tre "maggiori", non prese in esame dal libello, sono naturalmente la quantità, la qualità e la relazione). Una volta terminata l'analisi intorno alle suddette categorie "minori", viene proposta un'articolata riflessione sui concetti di più o meno, ovvero di maggiore e minore, collegati alla crescita e alla diminuzione.