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Alcune stelle non hanno splendore costante, la loro grandezza apparente - che ci è concesso di guardare solo a distanza di millenni - varia di giorno in giorno, di anno in anno, assumendo valori ogni volta diversi. Sono stelle variabili, astri barbaglianti e astronomicamente umorali, abbagli di vertigine oscura. Da questa indecifrabile luce prende il titolo l'ultimo libro di Vittorio Sereni, "Stella variabile", opera in cui convergono per culminazione e sidereo sfinimento i versi postremi di uno dei più grandi poeti del Novecento. Testimonianza insuperabile della sfuggevole grazia poetica e della vanità del linguaggio, "Stella variabile" coglie negli attraversamenti di una parola falsamente mediana e di una versificazione instabile, capace di frangere verticalmente il canone formale, il luogo di un incontro con i segni personificati della precarietà umana; lì dove spettri ridesti, presagi ferali, scene domestiche, posti ambiguamente di vacanza e di lavoro si fanno metonimia, tragica allegoria di tutte le biografie e, forse, di qualsiasi destino. Per questo in "Stella variabile" la parola del poeta è un'arma bianca che ferisce senza tregua e mai uccide: la vita, come il suo rovescio mortale, rifugge con reticenza i simboli e i valori linguistici, e trova nella poesia non il suo compimento e la sua oracolare giustificazione, ma l'unico "campo di forze", come scriveva Sereni, in cui è davvero possibile agire.