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Nell'aprile 2011, senza alcuna accusa formale, la polizia cinese arresta Ai Weiwei e lo tiene recluso per 81 giorni in una località segreta. Il mondo dell'arte si indigna e organizza mostre, petizioni, coinvolgendo i governi per fare pressione per il suo rilascio. Il nome di Ai Weiwei oltrepassa la cerchia degli appassionati di arte e architettura, l'onda del web lo diffonde su scala mondiale: Ai Weiwei diventa il simbolo della lotta per la libertà di espressione in Cina. In "Ai Weiwei parla", attraverso una serie di interviste raccolte tra il 2006 e il 2009, l'artista racconta ad Hans Ulrich Obrist l'infanzia segnata dall'esilio del padre, il poeta Ai Qing, accusato di anticomunismo. L'adolescenza, passata a disegnare nelle stazioni ferroviarie; gli anni ottanta a New York, l'incontro con Alien Ginsberg; il ritorno a Pechino nel 1993 e la determinazione a lottare per la libertà nel suo paese. Artista, fotografo, architetto, curatore, con facilità sorprendente Ai Weiwei passa da un medium espressivo all'altro. Scatta fotografie in continuazione e le pubblica su quel blog che conta centomila contatti al giorno. Il suo blog scatena la reazione del governo, che lo chiude nel 2009. Nonostante i bavagli, Ai Weiwei continua a essere attivo su internet. E all'intrusione della polizia nella sua vita risponde con l'ironia del gesto artistico: quattro webcam che lo riprendono ventiquattr'ore su ventiquattro. Sono state messe off-line il giorno dopo.