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Sin dall'antichità alla musica è riconosciuto un potere in grado di alterare gli affetti dell'ascoltatore. Le implicazioni morali di questa concezione tornano d'attualità con la Riforma protestante, che ridiscute criticamente l'apporto dei sensi alla devozione. La parola cantata è inevitabilmente portatrice di suoni che ricadono, come ogni atto umano, nel sistema bipartito tra merito e colpa. Fino a che punto, allora, si può ricorrere per finalità spirituali alle risorse di un'arte dallo statuto espressivo ambiguo come la musica? A partire da questo interrogativo si articolano le differenti strategie di regolamentazione del paesaggio sonoro cinquecentesco messe in atto da cattolici e protestanti. Attraverso una prospettiva d'indagine interdisciplinare, questo studio vuole riflettere sul sodalizio ambiguo fra musica e devozione e ricostruire le modalità attraverso le quali l'esperienza sonora viene vissuta, promossa e repressa nell'Europa della prima modernità.