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Senza la sferza sociale del grande Dickens e senza gli angolini di moralistica ironia di William Thackeray, Anthony Trollope è il terzo rappresentante letterario dell'età vittoriana. Anzi, a seguire il decano degli anglisti Mario Praz "il più tipico rappresentante del romanzo vittoriano", proprio perché ritrae dal vero, in modo meno vistoso, ma più sottile e aderente, la realtà sociale dell'epoca sua: "ed è sorprendente quanto poco ingiallite siano le sue fotografie". Così i suoi romanzi, molti e pieni di pagine, non hanno mai un lieto fine, ma neppure una fine tragica; non figurano in essi eroi ed eroine, nessuno è troppo cattivo o troppo buono, troppo onesto o troppo capace di intrighi; niente è mai definitivo; il plot dominante di ogni romanzo rischia di cedere al fluire di un numero enorme di sottostorie e sottoplot, personaggi di passaggio si accampano in una vicenda che trascina a lungo il lettore seducendolo quasi contro la volontà dell'autore, come la vita vera; e tutto si muove in un ambiente abbastanza quieto da favorire soprattutto la mediocrità. Ed è per questo amore antiromanzesco della mediocrità che, se i romantici contemporanei non l'apprezzarono, la critica in seguito ha rivalutato la presenza e l'importanza di Trollope, la vivacissima e inconsapevole modernità. Questo romanzo è il quinto dei sei romanzi della serie delle Cronache del Barset, l'immaginaria contea dove si svolge uno dei cicli dello scrittore, ed è quello dedicato alle frustrazioni amorose.