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Il boom del commercio internazionale - dovuto alla rilocalizzazione mondiale delle produzioni e ai mutamenti nei mercati delle materie prime e dei consumi - fa crescere i traffici sul mare e nei porti. Questi, perduti i monopoli geografici del passato, competono sempre più aspramente. Ma la crescita dei traffici non garantisce alla regione portuale un aumento del valore aggiunto e dei benefici economici, mentre implica l'uso di spazio e infrastrutture e costi ambientali crescenti, fonte di conflitti e possibili "rifiuti" (lo scenario della demarittimizzazione delle città portuali). Occorre allora non solo puntare sull'efficienza del ciclo logistico, ma sui benefici economici e il valore aggiunto in loco, ormai il vero indicatore del successo durevole di un porto. Quel che conta non è tanto l'occupazione diretta delle attività portuali, in calo a causa dell'automazione e delle economie di scala, ma l'occupazione e il valore aggiunto delle attività indotte o attratte dai porti, il cui insediamento dipende assai più dal contesto delle altre imprese e delle istituzioni che dal volume di traffico. Il concetto di cluster marittimo portuale diventa allora essenziale per la competitività economica dei sistemi portuali, anche a scale subregionali o interregionali. Proprio dal cluster può venire una crescita dell'economia portuale indipendente da quella del traffico (che il territorio quasi mai può sostenere all'infinito). Può nascere, cioè, la (ri)marittimizzazione, o capacità di creare su un territorio, anche vasto e a rete, un contesto di eccellenza - fatto di imprese, istituzioni, formazione e capacità innovativa - che ponga ancora il porto come polo trainante per la logistica, cuore strategico dell'economia globale del secolo XXI.