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Certamente non sono molti gli artisti italiani del secolo scorso che nel proprio lungo percorso creativo, fra anni venti e ottanta, ne abbiano traversate le maggiori stagioni di ricerca, come è accaduto a Mario Guido Dal Monte (Imola, 1906-1990). E tanto più nella singolare condizione, per scelta deliberata, di un osservatorio sì di sguardo e di dialogo anche internazionale ma sostanzialmente mantenutosi in collocazione defilata, persino marginale, di base nella città natale. Una costante possibilità di presa di distanza, la sua, di un partecipare vivo e tempestivo, e attraverso formulazioni proprie indubbiamente originali, dialogando a tutto campo (assai presente attraverso mostre personali e partecipazioni nazionali e internazionali, a cominciare dalla Biennale veneziana nel 1928), senza tuttavia sostanzialmente lasciarsi coinvolgere più di tanto e temporalmernte più che tanto. E se mai veramente coinvolto lo è stato soltanto negli anni della sua breve ma assai vivace e articolata esperienza futurista (1927-1929), quando, in chiave di linguaggio d"'arte meccanica", ha vissuto in modo intenso (anche sotto il profilo organizzativo), in certa misura da protagonista, le attività di un particolare "luogo" del futurismo quale quello emiliano e romagnolo. Manifestando allora interessi non soltanto di pittore ma rivolti all'attività di una "casa d'arte", poi studio "Magudarte" (dalla ceramica alla moda, dal muralismo alla pubblicità).