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Fiato corto, prospettiva limitata, alluvione di numeri, che fossero costi, pubblico, mostre, biennali, notti bianche e notti nei musei. Negli ultimi anni l'arte contemporanea ha intrapreso una corsa che l'ha resa frenetica ed enfatica, riducendola a un appuntamento turistico o a un diversivo nell'agenda dello shopping. Richiamando però sempre più pubblico, stregato da artisti superquotati e da musei che somigliavano a macchine delle meraviglie. Cosa poi ci fosse dentro importava di meno. Decisivo era lo stupore per il fuori. Così il mondo dell'arte è diventato una grande bolla il cui fruscio ha anestetizzato lo sguardo, rendendoci tutti più indulgenti. Poi, a un certo punto, c'è stato lo sboom. I profitti di borsa, di cui si alimenta l'arte dei grandi numeri, sono calati, i musei hanno cominciato a chiudere, altri non aprono. Eppure la crisi non è il male peggiore. Più profondo è un altro buco che ha messo in luce, qualcosa che non si voleva vedere, nascosto com'era anche dallo scintillio dell'arte. Dell'arte che imita la moda, che ripiega nel grande lusso, che prende a prestito la vita e fa finta di spensierarsi. Si, la fine dei soldi ha rivelato la mancanza del senso. La rinuncia a esercitare un pensiero critico rispetto al mondo in cui si muove. Il quale, però, ha ancora un fortissimo bisogno dell'arte, se non altro per quella sua inalienabile capacità di rinnovarsi, di produrre nuovi linguaggi.