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L'emigrazione di circa la metà degli italiani negli ultimi due secoli, dai primi decenni dell'Ottocento ai giorni nostri, ha finito per condizionare tutto il percorso della società italiana nelle sue direttrici economiche e sociali. Le ragioni di questa "fuga", a parte la volontà del singolo di cercare realizzazione nel più ampio palcoscenico internazionale, sono sicuramente da rintracciare in strozzature e patologie di varia natura, che autorizzano a ritenere che non si fugge tanto dall'Italia o da qualche sua regione o villaggio in particolare, bensì da alcune realtà italiane che contrastano con la rara bellezza del paese, il cui ricordo struggente peraltro l'emigrante porta nel cuore per tutta l'esistenza. Non fa eccezione l'expat sardo proveniente da un'isola che si è conservata nei suoi valori e limiti per secoli, fino a quando quasi un terzo della sua popolazione, dopo aver dato in precedenza un modesto contributo ai flussi migratori di massa italiani, non ha deciso nell'ultimo Dopoguerra di iscriversi alle uscite più consistenti delle regioni meridionali verso il Nord Italia e all'estero. L'autore, reputando questo fenomeno tutt'altro che negativo, benché comporti perdita di risorse umane, non concorda con chi vorrebbe tentare di arginarlo, ma cerca di dimostrare anzi come esso abbia giovato alla società sarda aiutandola a crescere e a migliorare. Il fenomeno in realtà non è stato compreso a fondo da una classe politica e dirigente locale miope e autoreferenziale che oggi assiste impotente e priva di idee allo spopolamento e all'invecchiamento crescente della popolazione con l'uscita dei più giovani. Quanto la società sarda, la politica e l'amministrazione siano responsabili dell'abbandono da parte di tanti sardi del territorio è ciò che si ripromette di dimostrare questo lavoro. Così come, nel proporre rimedi alle distorsioni create, cerca di offrire un ulteriore paradigma interpretativo dell'emigrazione italiana, in particolare di quella meridionale e insulare.