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Il contrappasso è un tipico luogo della poetica dantesca, e sebbene ne siano rinvenibili ampie tracce anche nel pensiero tragico greco, nella letteratura latina o perfino shakespeariana, nella sua fondabilità teoretica - come strumento di punizione, di commisurazione della punizione in relazione alla gravità del fatto criminoso o peccaminoso commesso - esso può essere esaminato anche ben oltre i profondi spazi degli scenari letterari. Il contrappasso, infatti, si propone come strumento di giustizia sostanziale, inscrivendosi lungo l'antico sentiero della vendetta e della legge del taglione, esaltando un concetto di giustizia retributiva da cui la modernità giuridica si è oramai del tutto affrancata. Nonostante l'incedere del tempo, nonostante il mutare del quadro assiologico di riferimento, nonostante l'avvento di nuove e più seducenti linee teoriche di filosofia del diritto in genere e della pena in particolare, il contrappasso come espressione della giustizia retributiva rappresenta ancora una sfida per la contemporaneità. Non soltanto, infatti, il contrappasso deve ancora essere approfondito nella sua reale natura storicamente determinata, ma può ancora fungere da modello di giustizia per un mondo, quale è quello attuale, in cui proprio la giustizia vive la sua più acuta e radicale crisi. Attraverso una "tomografia" di carattere teologico, filosofico e soprattutto giuridico, il presente testo si propone il faticoso onere di cominciare a problematizzare il tema del contrappasso, suggerendo ai contemporanei l'idea che - probabilmente - la sua archiviazione storica e teoretica non è stata così prudente o definitiva come si ritiene. Il contrappasso - come criterio di commisurazione della pena fondato su una intramontabile idea sostanziale di giustizia - ha, dunque, ancora qualcosa da insegnare ai giuristi contemporanei e, forse, anche a quelli futuri.