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Mal di vuoto, terrore delle altitudini che in realtà è paura di cedere alla tentazione di lasciarsi cadere: tutti sanno che cos'è l'acrofobia, e molti ne sono affetti. Prima di Freud, le cosiddette «scienze dell'anima», tra cui la nascente psichiatria, riservavano alle vertigini un posto d'onore nel quadro delle patologie mentali, giudicandole l'elemento destabilizzante e intossicante - repulsivo e attrattivo insieme - senza il quale la coscienza stessa non era concepibile. Alcuni si spingevano fino a indurle nei pazienti attraverso minacciose terapie rotatorie. In modo non cruento, ma altrettanto radicale, la vertigine si accampa anche nella filosofia degli ultimi due secoli. Se a Montaigne e a Pascal poteva ancora apparire un perturbamento della ragione a opera dell'immaginazione, in seguito il pensiero smette di assimilarla a un'occasionale instabilità immaginativa da vincere, per riconoscerla parte del suo stesso procedere: l'identità si manifesta malferma, cinetica, opaca, vertiginosa appunto. La critica del paradigma coscienziale e della sua presunta fermezza attraversa, con tenore ed esiti differenti, la riflessione di Husserl, di Heidegger e dei francesi del secondo dopoguerra, da Sartre a Merleau-Ponty, da Levinas a Jankélévitch a Klein. Il cortocircuito folgorante di Andrea Cavalletti accosta le loro scansioni teoretiche alla resa cinematografica della caduta nel vuoto di un celeberrimo giallo di Hitchcock, "La donna che visse due volte" (titolo originale: Vertigo), dramma degli abissi identitari di cui Truffaut ammirava il ritmo contemplativo. La combinazione geniale, mai tentata prima, di dolly e zoom che lì realizza tecnicamente l'effetto del precipitare descrive quel doppio movimento di «spingere e trattenere» che è la condizione abituale del soggetto e dell'intersoggettività. Per raggiungere me stesso devo guardarmi dal fondo del baratro, con gli occhi altrui. «Il mio "qui", allora, fugge laggiù e da laggiù mi attrae».