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Un'arte di vivere, un esercizio spirituale: ecco, secondo Pierre Hadot, la vocazione del pensiero antico. Dalla sua finalità eminentemente pratica avrebbe poi preso le distanze la svolta teoretica della modernità, posta sotto il dominio dell'astrazione concettuale. Su questa visione di Hadot, che ha contribuito come poche altre a reinterpretare le grandi scuole filosofiche dell'antichità, ebbe influenza una figura lontanissima dal suo ambito disciplinare, con cui qui si salda il debito. Negli anni cinquanta del Novecento, assorbito dallo studio del tardo neoplatonismo, Hadot incontra la filosofia del linguaggio di un contemporaneo pressoché sconosciuto in Francia, Ludwig Wittgenstein, e vi scopre una impensata affinità con l'esegesi che egli va compiendo dei testi mistici. Il logico e il mistico, il dicibile e l'indicibile reclamano dei regimi distintivi, sia per Hadot sia per Wittgenstein. E in entrambi la riflessione sui limiti del linguaggio si associa a una concezione della filosofia orientata alla forma di vita, non alla pura dottrina. Nei due capolavori di Wittgenstein, il Tractatus logico-philosophicus e le Ricerche filosofiche, tradizionalmente contrapposti, Hadot vede infatti all'opera il tentativo della filosofia - «malattia del linguaggio» - di procedere a un'autoterapia, ossia di guarire da se stessa. Dai discorsi filosofici occorre risalire alla forma di vita che li generati. «È in quest'ottica che ho cominciato a parlare di esercizi spirituali ... per designare un'attività, quasi sempre di ordine discorsivo, sia razionale o immaginativa, destinata a modificare in sé e negli altri il modo di vivere o di vedere il mondo».