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La poesia di Roberto Piperno ha una voce alta, concentrata, profonda, la parola è essenziale, semplice, il verso apatico, il tono sommesso. La poesia di Piperno non è più né «innica» né «elegiaca», per usare le categorie continiane, ma un brusio interrotto da silenzi, da ricordi, da dubbi, il monologo di un uomo solitario. Ciò che resta è la «solitudine» di un uomo scampato per sorte alla retata dei nazisti al «Ghetto» di Roma nel 1943, la poesia diventa «testamento» spirituale, un documento sul quale incidere il dolore per una vita che sarebbe potuta essere migliore, e per tutto ciò che non è stato. Nelle parole di questo libro si può intravvedere in filigrana la storia degli ultimi decenni dell'Italia e il degrado di Roma, la città dove il poeta ha vissuto tutta la vita con dolore e passione. Roberto Piperno insegue il suo canto della durata, una durata senza tempo, un eterno presente, in cui cogliere sprazzi di luce, abbagli, minuterie. Piperno prende per mano il lettore, lo accompagna nelle segrete stanze della vita scrivendo un poema sulle virtù benefiche del quotidiano.