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Dopo quattordici anni di silenzio in «stato vegetativo», Alessandro Pivetta si racconta attraverso la voce di Fabio Cavallari, amico di famiglia, scrittore attento e vicino alla disabilità, alla condizione dei malati terminali e a quanti combattono ogni giorno al loro fianco la battaglia per una vita degna e piena. «Mi chiamo Ale. All'anagrafe Alessandro Pivetta. Abito a Pordenone. Ho trentaquattro anni. Non parlo dalla mattina del 15 agosto 2005. Lo so, è un silenzio prolungato, ma non si tratta di mutismo selettivo e non ho neppure un problema alle corde vocali. È una grana un pochino più complessa. Diciamo di difficile soluzione. È vero non cammino neppure. Non muovo le braccia. Non rido? Beh, questo lo lascio dire a voi. Io ho riso molto in questi anni. Non ve ne siete accorti? Sinceramente è un problema vostro.» Comincia così il monologo di Alessandro. La sua vita è la sua malattia. Ogni pensiero, ogni sentimento, ogni relazione muove da lì e da lì prova ad andare oltre, a volte riuscendoci, a volte no, in compagnia dell'esistenza di prima - i ricordi, le amicizie, i sentimenti, i progetti - e dei mille problemi legati alla sua condizione. Ironico, lucido e poco accomodante, il linguaggio di questo libro si sposa con l'età di un ragazzo che ha vissuto troppo poco per accontentarsi di giudizi preconfezionati o di consolazioni superficiali. Le sue parole a favore della vita offrono la possibilità che il dubbio lieviti in noi e che la domanda sull'umano rimanga imprescindibile. Alessandro non c'è più, è morto il 21 gennaio 2020, ma la sua voce «canta» libera nella babele della modernità conformista: «Io metto in dubbio le vostre certezze, scavo buchi nelle vostre fragilità, vi pongo spalle al muro da sdraiato».