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Per molto tempo, il limite di Pinocchio fu quello d'ogni libro per l'infanzia, un limite che a una più attenta lettura si rivela estremamente ambiguo. Non bisogna infatti dimenticare che nella prima stesura, quando uscì a puntate sul "Giornale dei bambini", nel 1880 (col titolo: Storia di un burattino), il romanzo finiva nella maniera meno favolistica e infantile possibile, con la morte di Pinocchio impiccato, e solo ragioni esterne indussero Collodi a riprendere la storia per concluderla nel modo che sappiamo. Neppure nelle intenzioni, quindi, fu mai un libro "esclusivamente" per l'infanzia. Anzi! Ormai non è difficile scoprire dietro l'allegorico disegno il ritratto più acuto e critico di una società e di una civiltà, quella umbertina, quale non ci è stato consegnato da nessun altro documento letterario con eguale arguzia e freschezza e con eguale verità. Tutta la favola cioè è traducibile in storia. E alla fine il burattino che diventa un ragazzo "perbene" pare davvero suggerire - su quella espressione così criticamente ironica, "perbene" - non tanto l'edificante esempio per i giovani lettori, quanto piuttosto la pessimistica immagine della rinuncia all'estro libero da parte di Pinocchio, integrato in una società «perbene», in un mondo dell'ordine. Che fu la qualità, proprio, più caratteristica della modestia umbertina. Una favola, dunque, che sotto le spoglie d'un pedagogismo ottimistico nasconde il suo contrario.