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Ho sempre scritto, bene o male. A sedici anni ho venduto il mio primo libro, un giallo con copertina azzurra. Copia unica, scritta a penna stilografica, comprata da mio fratello per ben cento lire, ovviamente spese in figurine dei calciatori. Quest'ultimo è un romanzo abbastanza serioso ispiratomi da un personaggio veronese, un amico. Volevo scriverlo con lui ma non sono riuscito a convincerlo e poi, d'un tratto, improvvisamente se n'è andato. A quel punto ho elaborato i ricordi e ho aggiunto delle parti che non ha fatto in tempo a raccontarmi. E non solo, ho aggiunto anche parti accadute a sua insaputa. C'è un filo conduttore veritiero: l'amicizia, il gioco d'azzardo, la mafia (non solo locale), la superstizione, i legami affettivi o quasi. Ma soprattutto c'è il bisogno di dileguarsi del protagonista, di allontanarsi dai problemi materiali, di fuggire dall'odio, dal denaro, dalle ingiustizie e il desiderio di non essere cercato e di cercare, forse, una religiosità laica. Henri Laborit negli anni settanta scrisse: «In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare». Diego, il co-protagonista del romanzo, pensava l'avesse inventata Jim Morrison.