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Esistono due Giulio Mozzi: il primo è l'autore di «storie semplici, profonde, perfette» (Marco Lodoli), il cui linguaggio «è quello della vita» (Federico Fellini); il secondo è «uno degli scrittori più sperimentali conosciuti» (Giuseppe Caliceti), uno che «ha preso la parola con il tono di chi detta legge» (Tiziano Scarpa). Nell'opinione comune, semplicità e sperimentalismo sono agli antipodi. Eppure Giulio Mozzi, dalla sua prima raccolta (Questo è il giardino 1993) alla più recente (Favole del morire 2015) è sempre riuscito nel miracolo di coniugare una lingua piana e senza asperità con la sperimentazione formale più accanita; come è riuscito a conciliare un immaginario spesso terribile - gli scrittori "cannibali" degli anni Novanta possono andare a nascondersi - con una visione molto cristiana - seppure un po' veterotestamentaria - del mondo. In questo volume Mozzi ha raccolto, in collaborazione con la critica Gilda Policastro che firma anche la nota finale, i suoi racconti non solo più belli ma anche più innovativi, più irregolari e più spiazzanti. Dimostrando così di essere davvero, come ha scritto Andrea Cortellessa, un «maestro segreto» della sua generazione di scrittori - quella dei nati negli anni Sessanta - e delle successive.