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«In un'oscura e rovinosa carcere della Mancha, nasce il Don Quijote. Ma era già nato prima il vero Don Quijote: era nato in Alcalá de Henares nel 1547. Non s'era ancora riconosciuto, non s'era veduto ancor bene: aveva creduto di combattere contro i giganti e di avere in capo l'elmo di Mambrino. Lì, nell'oscura carcere della Mancha, egli si riconosce, egli si vede finalmente; si accorge che i giganti eran molini a vento e l'elmo di Mambrino un vil piatto da barbiere. Si vede, e ride di sé stesso». Così Luigi Pirandello ricostruisce ne L'umorismo la genesi del Don Quijote di Miguel de Cervantes, il quale assurge a modello fondante della poetica dello scrittore siciliano, meritevole di aver portato, per la prima volta nella letteratura, il «sentimento del contrario», l'umorismo. La lettura pirandelliana risente della ricezione romantica e idealista del capolavoro cervantino, tuttavia le meravigliose parole con le quali Pirandello mette sotto la sua lente d'ingrandimento Cervantes producono due effetti distinti ma complementari. Da un lato ci autorizzano a leggere l'intera produzione dell'autore siciliano sotto la luce di quella di Cervantes e, dall'altro lato e con le dovute cautele, ci permettono di rileggere Cervantes attraverso nuove prospettive, secondo la massima di Jorge Luis Borges per cui ogni autore crea i propri precursori. Il denominatore comune risiede nel fenomeno della metanarratività, che caratterizza e rende peculiari le strutture narrative e il sistema dei personaggi dei due autori. C'è tanto donchisciottismo nei personaggi pirandelliani quanto pirandellismo nelle costruzioni narrative cervantine.